Mimmo D’Ippolito è
infatti bravo a convogliare un’idea su due distinte- ma anche alternative,
complementari e vicendevolmente integrative- vie comunicative. Una, più
bucolica ed ipnotica- “Farewell to Childhood”- l’altra più cinica ed aggressiva
(la title track).
Si tratta di due emisferi dello stesso pianeta, di due stanze
della stessa casa, di due anime esteticamente disgiunte ma unite
concettualmente. I rintocchi di pianoforte su tappeto di chitarra di “Farewell
to Childhood” equivalgono alla sintesi fredda e bruciante di “Glacial Wind”, lo
spirito primaverile e tiepido della prima parte del disco è lo specchio delle
gelide distese della title track.
L’unica variabile relativamente estranea a questa visione è
l’intromissione elettronica della seconda parte di “Glacial Wind”. Non tanto
per l’effetto generale, molto vicino alle idee atmosferiche di John Carpenter, quanto
per la violenza con cui ritmo e cibernetica s’impossessano della scena,
usurpando il ruolo naturale dei presupposti ambient fino a quel momento dominanti e
rompendo un rapporto di mutua coercizione tra musiche ed ascolto che di certo
poteva essere più gratificante.
Insomma, tanto per capirci, “Glacial Wind” è un punto di partenza,
non certo d’arrivo: praticamente un potenziale album ridotto alle sue più
estreme conseguenze. Detto altrimenti, non il dettaglio di un lavoro più
complesso ma il lavoro stesso condensato nello spazio di sue sole realtà, una
sana l’altra tossica, una rassicurante l’altra tesissima, una fresca l’altra
torbida.
Se tutto questo, un domani dovesse diventare un full-length… beh,
mi prenoto sin da ora per valutarne pesi e misure!
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